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martedì 7 febbraio 2012

Filosofia della chiacchiera

Lo scritto che segue è il frutto di una spiacevole polemica a distanza avuta quest'estate con un collega. Non importa quale fosse il reale oggetto del contendere, per vero o no che fosse, quel che rileva, e che mi interessa in questa sede sviluppare è un'analisi filosofica della "chiacchiera" che possa porsi distante da alcuni luoghi considerati (da altri) imprescindibili. Con questo spirito l'ho pensato e messo per iscritto. Spero solo che possa essere valutato per lo sforzo profuso e per la qualità delle riflessioni ivi presenti, e non per la miseria personale che l'ha ispirato, e che comunque resta sullo sfondo come non-detto, non-compreso, non-chiarito...



(immagine tratta da: http://media.ourstory.com/34/64/11/b948b55102590c6ee8ec3b35493cbe5fc07ef40d/2294382aee023a1f3f304a900dc0cae13c9ea190.jpg)


Filosofia della chiacchiera
di Alessandro Pizzo

1.     Parole, parole, parole …

Possiamo iniziare il presente lavoro, ripetendo le giustamente famose parole con cui Searle comincia la sua opera “prima”:

In che modo le parole hanno rapporto col mondo? Un parlante si pone di fronte ad un ascoltatore, emette un’esplosione acustica, ed ecco che avvengono fatti tanto notevoli come questi: il parlante vuol dire qualcosa; i suoni che emette vogliono dire qualcosa; l’ascoltatore capisce quel che si vuol dire; il parlante fa un’affermazione, pone una domanda, dà un ordine. Com’è possibile tutto ciò?[1]

La cosiddetta “svolta linguistica”, anche in filosofia, fa valere il primato del linguaggio quale strumento unico disponibile a che gli esseri umani possano agire nel mondo. Per il tramite delle parole, adoperate all’interno degli scambi comunicativi, i parlanti umani possono essere considerati degli agenti i quali parlano per sortire effetti intenzionali in pratica, o, per dirla altrimenti, con Austin, per fare cose con le parole. L’insieme articolato, quanto complesso, delle parole costituisce il discorso umano. Molti sono i relativi esempi, dai discorsi molto seri sino a quelli molto frivoli, dai discorsi veicolanti date conoscenze intorno alla realtà per giungere a quelli la cui intenzionalità è solamente quella di lasciar trascorrere il tempo. La filosofia si è (quasi) sempre interessata ai primi, data la sua vocazione “grande”[2], noi intendiamo, invece, dedicarci qui ad un tipo di discorso più dimesso, difendendone, però, le ragioni e le critiche ingenerose, le quali tendono in genere a svalutarne la reale portata conoscitiva sul mondo in nome di un non meglio precisato pregiudizio: certi discorsi sono solo futili parole (o, pettegolezzi). Ci si scuserà, ma, questa è la nostra opinione, forse è bene scavare un po’ più in profondità.

2.     La verità ti fa male …

Nel nostro vivere quotidiano fa quasi sempre capolino un particolare tipo di discorso che siamo soliti chiamare “chiacchiera”. Ma sinora, a quanto ne sappiamo, manca un’adeguata trattazione filosofica dello stesso, compito che riteniamo oltremodo interessante, ma che purtroppo non riteniamo di poter svolgere in maniera esaustiva in questa sede. Pertanto, la finalità della presente ricerca va intesa in maniera propositiva e progettuale: gettare le basi per un’analisi filosofica del tema in oggetto. Ciò significa, detto altrimenti, che il presente è solo un breve abbozzo di una ricerca che dovrà necessariamente estendersi in seguito ed interessare – questa è la speranza - più autori[3].
E tuttavia riteniamo anche di poter affrontare il tema servendoci di un ritrovato retorico facile da seguire, pur nei molteplici profili teoretici che lo stesso è in grado di servire. Infatti, ci porremo una questione da cui partire per dipanare, se possibile, i fili del discorso intorno alla “chiacchiera”. Si tratta di un utile espediente che presenta molteplici vantaggi rispetto alla difficoltà di avvicinarci al presente tema evitando di ridurlo alla banalità. La questione che intendiamo affrontare è, dunque, la seguente:

(Q) cosa accomuna il pappagallo, il mentitore e il serpente?

Prima di proseguire, però, è bene spendere al riguardo alcune parole. Infatti, trattandosi di un espediente retorico, vengono adoperate delle metafore al fine di far meglio comprendere i diversi tra loro fronti che reggono l’uso del discorso che intendiamo svolgere. Ciò significa che il pappagallo, il mentitore e il serpente sono delle metafore di altrettanti modi di adoperare il discorso che consideriamo chiacchiera, diversi simboli di vari usi assunti dagli agenti umani nel momento in cui entrano in relazione tra loro attraverso la comunicazione, generalmente verbale, ossia mediante verba, parole. Detto altrimenti, allora, quel che accomuna i vari simboli di altrettanti costumi umani è l’uso della chiacchiera. Il pappagallo adopera il discorso noto come chiacchiera. Lo stesso fa il mentitore e la medesima azione usa solitamente anche il serpente. Tuttavia, di volta in volta cambia lo specifico uso realizzato. Intendiamo dire, cioè, che l’uso fatto della chiacchiera da parte del pappagallo è diverso da quello delle altre due metafore, e viceversa: ciascuna metafora esprime differenti usi della chiacchiera all’interno della comunicazione umana. Ecco allora che, in risposta alla questione di partenza, dopo aver individuato cosa accomuna pappagallo, mentitore e serpente, deriviamo una seconda questione:

(Q2) cosa distingue il pappagallo, il mentitore e il serpente?

Mentre ad accomunarli è l’uso della tipologia di discorso noto come chiacchiera, a distinguerli è la particolare funzione che ciascuno intende realizzare con il suo specifico uso. La differenza tra la questione (Q) e la questione (Q2) è presto detta: la prima mette in luce l’uso del medesimo tipo di discorso, la chiacchiera, la seconda, invece, rende conto della diversa funzione che i singoli attori umani realizzano con l’uso del discorso di cui sopra, la chiacchiera. La cosa non è, com’è facile vedere, priva di conseguenze. Infatti, il pappagallo, il mentitore e il serpente usano la chiacchiera, ma lo fanno conseguendo effetti diversi di volta in volta, da caso a caso. Pertanto, se nella comunicazione umana i vari attori adoperano lo stesso tipo di discorso ma conseguono effetti diversi da caso a caso, ecco allora che ciò ci fornisce indicazioni interessanti sul significato che filosoficamente è possibile attribuire alla chiacchiera. Ovviamente, tale tipo di discorso assume a livello d’indagine il lektón, di stoica memoria. Infatti, il

lektón non si situa nella mente dei locutori, ma nel linguaggio stesso[4]

Nelle trame, e pieghe, del linguaggio umano, i locutori, o parlanti, mettono in azione una comunicazione avente come oggetto sempre la realtà, e la sua relativa interpretazione. La chiacchiera rientra appieno in questa dinamica, e configura una struttura sua peculiare. E d’altra parte, le proposizioni sono sempre strumenti nella misura in cui ne consideriamo prioritaria l’espressione di un significato. In merito, tornano utili le parole di Deleuze:

Il senso è la quarta dimensione della proposizione. Gli stoici l’hanno scoperta con l’evento: il senso è ciò che è espresso della proposizione[5]

Innanzitutto, e per lo più, la concezione comune, il senso comune, valuta negativamente questo tipo di discorso, considerandolo, a torto o a ragione, qualcosa di “poco conto”, di “errato”, un insieme di “sciocchezze”, e così via. La chiacchiera sarebbe, pertanto, e seguendo questo filo, un comportamento linguistico molto diffuso ma privo di importanza effettiva, un mero emettere parole ma senza dire nulla di vero, di importante, di rilevante intorno alla realtà. La chiacchiera, allora, sarebbe qualcosa di non importante, un ciarlare privo di costrutto, un insieme di parole, significanti sì, ma non serio. La filosofia prende certamente le proprie mosse dal senso comune, ma se ne allontana. Di conseguenza, non interessa alla presente considerazione se la chiacchiera sia o meno qualcosa di non rilevante, ma prendere in considerazione il significato dell’uso del discorso considerato chiacchiera e l’effetto che lo stesso ha nella costruzione della realtà. Dal presente punto di vista, chiacchiera non equivale a pettegolezzo, ma ad un insieme coerente, per non dire anche razionale, di parole costituenti un particolare tipo di discorso. Il che, anche se potrà apparire del tutto irrilevante, e si tratta a tutti gli effetti di un’impressione errata, ci dice qualcosa d’importante intorno alla realtà. Infatti, gli attori comunicano non così tanto per parlare, ma per esprimere una conoscenza della realtà.
3.     Le parole o le cose ti fanno “grande”?

Di conseguenza, sembra di poter affermare come anche la chiacchiera prenda parte a questo compito “grande”: comunicare una “certa” conoscenza del reale. Perché una “certa”? La risposta è semplice: quel tipo di conoscenza che il singolo agente, pappagallo, mentitore o serpente, intende comunicare ad altri. In questi termini, allora, la chiacchiera ristruttura il rapporto conoscitivo seguendo l’articolazione di quattro differenti elementi: (1) parlanteX (pappagallo; mentitore; serpente); (2) conoscenza della realtà; (3) parlante2; (4) effetto. Lo schema appare chiaro nella sua semplicità: il parlanteX comunica al parlante2 la sua conoscenza della realtà, sortendo in quest’ultimo un certo effetto, di assenso, di rifiuto, di perplessità. Ecco come mai la chiacchiera sia particolarmente interessante: non è solamente un vano riempire d’aria la propria bocca, ma uno strumento per veicolare ad altri la propria (personale) conoscenza (e concezione) della realtà. Com’è noto ormai, la conoscenza non può, almeno non del tutto, essere scissa da una sua relativa interpretazione, nel senso che conoscere la realtà significa (anche) interpretare quest’ultima. Di conseguenza, i singoli parlanti, nel comunicare la loro conoscenza del reale, comunicano ad altri anche la loro (relativa) interpretazione, valutazione, considerazione. Pertanto, allora, la chiacchiera, esattamente come tanti altri tipi di discorso, si presta a comunicare una conoscenza/interpretazione della realtà. Il pappagallo, con il suo ripetere, il mentitore, con il suo mentire, il serpente, con il suo dissimulare, adoperano lo stesso tipo di discorso, ma lo fanno secondo funzioni, e scopi, differenti.
Ma la cosa richiede una considerazione ulteriore. Abbiamo adoperato un espediente retorico un poco ardito, tanto nelle sue pretese esplicative quanto nella sua costruzione. Pertanto, disponiamo di tre casi diversi:

(a)  Il pappagallo;
(b)  Il mentitore;
(c)  Il serpente.

Comunicando con altri, ciascuno di loro realizza un’intenzione diversa, conseguendo finalità conseguenti, e cogenti, quando la comunicazione va a buon fine. Le figure simboliche prescelte sono così funzionali a tre tipi di conoscenza intorno alla realtà. Molto semplicemente, quanto rispettivamente: (1) la verità; (2) la falsità; e, (3) l’opinione. Il pappagallo non fa che ripetere quanto “sa” della realtà, e, quindi, con tutta probabilità, riporta una conoscenza vera della stessa. Invece, il mentitore non fa che non riportare quanto “sa” della realtà, e, quindi, con ogni probabilità, riporta una conoscenza falsa della stessa. Infine, il serpente non fa che riportare o non riportare o riportare parzialmente, a seconda della sua convenienza, quanto “sa” della realtà, e, quindi, con tutta probabilità, riporta una conoscenza opinabile della stessa. Sembra, allora, che delle tre vie indicate agli albori della riflessione filosofica[6], verità, falsità, opinione, le figure simboliche prescelte esprimano appieno una delle singole vie, comunicando ad altri una data conoscenza della realtà. Se così stanno le cose, appare allora legittimo affermare che la chiacchiera, in quanto uno specifico tipo di discorso, assume la forma di un portatore di significato rispetto alla realtà. Siccome riguarda in qualche modo la comunicazione umana e siccome poi il suo uso rientra appieno nel novero delle possibilità interattive degli attori umani, agenti in quanto parlanti, allora è bene volgere lo sguardo adesso alla specifica valutazione che di tale struttura enunciativa ha compiuto la filosofia. A dire il vero non esiste una trattazione completa in merito, solo delle riflessioni parziali. L’autore che in misura maggiore ha dedicato parte della sua riflessione al tema in questione è stato Heidegger il quale nel § 35 della sua opera maggiore così ha interpretato la chiacchiera:

un fenomeno positivo che costituisce il modo di essere della comprensione e dell’interpretazione dell’Esserci quotidiano[7]

Nella sua caratteristica prosa poetica, la fenomenologia esistenziale di Heidegger, in quanto versione autonoma dell’eidetica del vero del suo maestro Husserl, non valuta negativamente il fenomeno comunicativo, diciamo così, della chiacchiera. Anzi, essa viene considerata parte integrante della modalità attraverso la quale l’uomo comprende sé stesso in quanto esistente. È quando l’Esserci si volge verso i suoi simili che possono nascere dei problemi. Infatti, il filosofo tedesco prosegue in questi termini:

La tendenza del suo essere è di portare coloro che odono ad essere partecipi dell’essere-per ciò di cui il discorso discorre[8]

E qui ci addentriamo all’interno scosceso dell’argomento. In effetti, la chiacchiera ha questo di effetto iniziale su quanti ne prendono parte: rendere partecipi di quanto discusso. Ovviamente, si tratta di una condizione del tutto peculiare nel senso che chi vi partecipa, anche se non ha mai fatto esperienza diretta di quanto riportato da altri, è come se vi avesse partecipato. Gli interlocutori, cioè, condividono date informazioni, date conoscenze della realtà, al punto da sentirsi in prima persona partecipanti ai fatti stessi di cui, in altro tempo e in altro luogo, si discorre. Nelle parole del filosofo:

L’oggetto della comprensione diviene il discorso, il sopra-che-cosa lo è solo approssimativamente e superficialmente. Si intendono le medesime cose, perché ciò che è detto è compreso da tutti nella medesima medietà[9]

Ciò significa che chi partecipa alla chiacchiera, in qualche modo, sia pure mediatamente, sembra “vivere” quanto accaduto altrove e ad altri. La sensazione è, cioè, di prendere parte personalmente a quanto narrato da altri, sia pure in un tempo differito e in un luogo mutato. Non importa, pertanto, che gli interlocutori non abbiano partecipato direttamente a quanto narrato, quanto, piuttosto, che, per il tramite delle parole, essi si sentano partecipi degli stessi eventi di cui si discorre. In fin dei conti, gli astanti finiscono con l’avere una sensazione di partecipazione (in-)diretta a quanto si discorre. In questo senso, la chiacchiera è il modo che l’uomo ha per interpretare sé stesso in quanto essere. Infatti,

La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere[10]

Nella sua medietà, la chiacchiera consente a chiunque di partecipare (in-)direttamente ad eventi di cui non si è né testimoni diretti né tantomeno attori. E consente di accedere alle “cose” senza una comprensione in prima persona. Infatti, scrive ancora il filosofo:

La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime da una comprensione autentica, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto[11]

Pertanto, a dispetto, magari, di come il senso comune considera la chiacchiera, il tipo di discorso presente non è diretto intenzionalmente ad ingannare. Questo è un eventuale esito secondario. Come scrive sempre Heidegger:

La chiacchiera non è il risultato di un inganno voluto. Essa non ha il modo di essere della presentazione consapevole di qualcosa per qualcos’altro. Basta dire e ridire perché si determini il capovolgimento dell’apertura in chiusura[12]

In queste parole si coglie, meglio che nelle precedenti riportate, il profondo debito che il filosofo tedesco ha nei confronti di Husserl. Infatti, non si potrebbe intendere la sua insistenza sull’«apertura», sulla «chiusura», sull’«autenticità», sulla «comprensione», senza tener conto dello specifico fenomenologico secondo il quale l’apertura intenzionale informa di sé l’unica maniera propria di conoscere il reale, di cui pure siamo parte. Pertanto, la percezione “in prima persona”, in “presa diretta”, così per dire, è il punto di partenza di qualsiasi percezione possibile, costituisce un limite trascendentale all’orizzonte degli eventi, o all’orizzonte di attenzione del singolo conoscente. Allora, per il tramite della chiacchiera, diventa, per così dire, possibile fare esperienza, sia pure mediata, indiretta, di eventi, parole, detti, informazioni di persone assenti al momento e di fatti accaduti in altri tempi. Non è per Heidegger una conoscenza autentica, in quanto viene saltato il momento fenomenologico della presa in prima persona delle informazioni, dei fatti, e così via, ma una conoscenza lo è pur sempre. Resta da valutare, pertanto, a quale tipo di conoscenza si metta capo di volta in volta all’interno della chiacchiera. Prima, però, è bene affrontare un tema collegato, ma differente rispetto alla chiacchiera.
Viviamo in un’epoca dove la molteplicità di agenzie informative e di fonti a più livelli di conoscenza rende difficile una costruzione effettiva della conoscenza della realtà. Come scrive Frankfurt:

Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione. Tutti lo sanno. Ciascuno di noi dà il proprio contributo. Tendiamo però a dare per scontata questa situazione[13]

Da questo punto di vista, il senso comune sembra accordarsi con la conoscenza, diciamo pure, “esperta”: la chiacchiera, perché vano ciarlare, mette in circolazione delle informazioni inutili, superflue, futili, quando non dannose. Il prendere parte alle chiacchiere, pertanto, costituisce una delle fonti del fenomeno del bullshit, lamentato da Frankfurt. Ma rispetto, ad esempio, alle vie individuate da Parmenide, in che termini le nostre figure simboliche mettono capo a specifiche costruzioni di realtà? In effetti, la comunicazione appare mostrare una data conoscenza della realtà nella misura in cui si mandi ad effetto una specifica funzione attraverso quanto “si dice” o, comunque, partecipando all’interazione comunicativa. La psicologia, specie quella posteriore alle ricerche di Palo Alto, ha messo in luce la natura “interattiva” della comunicazione umana in funzione della quale quanti partecipano ad uno scambio fatto di enunciazioni collegate tra enuncianti diversi partecipano alla costruzione della medesima realtà. In qualche modo, si potrebbe anche dire che la comunicazione umana crea altrettanti “effetti di realtà”. In altri termini, la parola viene a svolgere il suo proprio ruolo di realizzazione di “legami” tra persone che la condividono, istituendo delle “connessioni”[14]. Ora, è pur vero che l’aspirazione di fondo della psicologia è la conoscenza del vero. Per cui, in «un certo senso tutta la psicoanalisi investe il tema della verità»[15]. Ma tale tema viene ricostruito sulla base dello specifico dello scambio tra attori che partecipino ad una discussione, ad un dialogo, ad una … chiacchierata. Solo questo basta a far perdere d’importanza la valutazione comune della chiacchiera come “vano ciarlare”. In fondo, quel che chi vi prende parte fa è condividere un comune spazio di interazione, certo non solamente verbale. E tuttavia gli effetti di realtà prodotti possono essere diversi tra loro, in dipendenza, con ogni probabilità dalla specifica intenzionalità che i comunicanti intendono realizzare. Seguendo ancora la nostra metafora, pappagallo, mentitore e serpente conseguono altrettante finalità comunicative:

(a)  Ripetizione;
(b) Falsificazione;
(c)  Manipolazione.

La prima finalità appare come la più neutra, magari può prestarsi ad usi strumentali da parte di terzi (ma può averne di per sé colpa?): il singolo attore comunicativo si limita a ripetere, nel senso di riportare, più o meno esattamente, quanto sa, o ha sentito dire o ha visto, in merito ad uno specifico argomento, un tema, una questione, delle persone, e così via. Ciò significa che tale parlante si lascia condurre da una spiccata curiosità sulla conoscenza della realtà. Certo si potrebbe obiettare che tale conoscenza non è diretta, acquisita per esperienza “in presa diretta”, ma non è certo una colpa. Tutt’al più, un limite di tale conoscenza. E d’altra parte, ciascun uomo aspira alla conoscenza (peraltro, per natura)[16]. Come sostiene Antiseri:

dietro la scienza c’è una scelta etica: la scelta del valore della conoscenza. La scienza è resa possibile (anche) dall’imperativo che ci comanda di acquisire conoscenza, sempre più conoscenza, sempre migliore conoscenza[17]

Al massimo, il difetto principale del pappagallo è la curiosità: non riuscire a porre freni alla sua curiosità di sapere e di riportare o ripetere.
La seconda finalità, invece, è più grave, su un’ipotetica scala di valutazione etica, rispetto alla precedente, ma è meno grave rispetto all’ultima finalità. Nello specifico, il mentitore, ossia l’agente comunicativo che falsifica le informazioni di cui è a conoscenza, passandole così ad altri in uno scambio comunicativo, in linea teorica alla pari, non fa altro che mistificare la conoscenza della realtà, comunicandone una falsa, diversa da quella effettiva e da quella che magari crede vera lui stesso. Il mentitore, d’altra parte, è colui che mente, che non dice cose vere, e che, dunque, mente anche sulla conoscenza di realtà che comunica mentre si chiacchiera. Eppure, la sua funzione si limita nel senso che termina qua: una volta che ha mentito, il suo operato cessa di avere luogo. Al massimo, il suo difetto consiste nel mentire: non riuscire ad evitare di contraffare quanto sa, riportandone una versione quanto meno “edulcorata” di quanto sa (e che comunque lui stesso considera “vero”, l’esatto opposto di quanto, invece, dice e comunica agli altri parlanti).
La terza, ed ultima, finalità, a dispetto della precedenti, appare come la più grave perché non solo falsifica la conoscenza della realtà che viene comunicata ad altri, ma adopera tale mistificazione per ottenere un vantaggio pratico: il serpente, nella simbologia biblica, è l’essere più sapiente perché, strisciando, insinua dubbi sugli altri, nelle nostre credenze, nelle sicurezze, proprie ed altrui; egli, non solo mistifica la realtà, ma la manipola onde sortire effetti ingannatori sugli altri partecipanti alla chiacchierata. Magari, il mentitore potrebbe pure lasciarsi andare e non volere intenzionalmente ingannare, ma il serpente fa questo di mestiere: ingannare gli altri per esercitare su di loro un “potere”, per ottenere un vantaggio che si riserva di incassare al momento opportuno. Per concludere, il serpente falsifica la realtà per compiere una manipolazione delle conoscenze e delle coscienze, per convincere i parlanti di una certa idea, di una data convinzione, di un dato movente. Una funzione certamente retorica, dato che

L’elemento costante è l’obiettivo da raggiungere: persuadere […]; i mezzi linguistici sono presi in considerazione in quanto possono servire a raggiungere questo obiettivo[18]

Il principale difetto del serpente è semplice: non riuscire ad evitare di manipolare gli altri locutori per “convincerli” a fare e/o dire qualcosa.
Le figure (2) e (3) ci descrivono una trasmissione, per così dire, della realtà a dir poco strana in quanto rinviano comunque ad un’area oscura della comunicazione umana. Infatti, il primo produce una falsa rappresentazione della realtà mentre il secondo produce una falsa interpretazione della realtà per perpetrare un inganno. In filosofia è ben nota la dimostrazione (per confutazione) del principio di non contraddizione nella Metafisica di Aristotele, l’élenchos. Uno dei suoi significati è, per l’appunto, inganno nel senso che il saper adoperare la scienza dialettica, ossia del convincere all’interno di un dialogo tra più parlanti, per il tramite di ragionamenti sofisticati e sottili, potrebbe generare l’impressione che chi vince la discussione stia barando, ingannando. La prima testimonianza di tale uso, certamente antecedente ad Aristotele, lo troviamo nell’Odissea di Omero quando Ulisse, per l’appunto, inganna il ciclope Polifemo[19]. E in questa luce Odifreddi considera Odisseus l’anagramma di Oudeís, nessuno[20]. Con questa zona grigia bisogna comunque fare i conti.

4.     Dimmi con chi parli …

In genere, però, a influenzare verso un giudizio negativo nei confronti della chiacchiera vi è l’idea, probabilmente fondata solo a metà, che tale tipo di discorso si limita solo a propagare delle falsità. Ma, come peraltro la presentazione delle tre figure principali da noi indicate mostra, ciò non è vero, almeno non nella totalità dei casi. Infatti, specularmente alle tre differenti conoscenze della realtà, possibili all’interno della chiacchiera, verità, falsità, opinione, quanto viene comunicato può essere (1) una verità; (2) una falsità; o, (3) una mezza verità. Su (1) e (2) non c’è molto da dire, piuttosto (3) è molto interessante. Quando qualcosa, un detto, un evento, un fatto può essere vero solo per metà? Quando un oggetto di discorso può apparire metà vero (e conseguentemente: metà falso)? A prima vista, si potrebbe rispondere che si tratta di oggetti che solo parzialmente corrispondono al vero, mentre per la parte restante o sono falsi o sono indifferenti al vero e falso (oppure ancora sono un po’ le due alternative). Dunque, disponiamo di oggetti a tal punto complessi da mostrare alcuni livelli come veri e altri come falsi (o come aleticamente indifferenti). Tuttavia, forse, le cose potrebbero non stare in questi termini così rigidi. Forse più che di mezza verità, possibilità comunque in linea teorica realistica, dovremmo parlare di mancata verità (per riprendere un passo di una nota canzone italiana), ossia di un fatto, evento, circostanza, riportate verbalmente, che, vuoi per carenza d’informazioni, vuoi per difetto d’esposizione, vuoi per mancanza di tempo, fallisce a rappresentare correttamente quanto vorrebbe descrivere o riferire. Ciò potrebbe apparire inconsueto, ma deriva da un habitus irriflessivo secondo il quale ogni nostro ragionamento o descrizione o resoconto può essere solamente completo o esauriente. Nella concreta pratica delle cose, invece, non accade quasi mai così, solo di rado ragioniamo su informazioni complete e con tutto il tempo a nostra disposizione. Piuttosto, gli agenti umani, e, quindi, anche i locutori all’interno di scambi comunicativi, operano inferenze con informazioni monche, parziali, incomplete e con tempi rapidi (per forza di cose). Ciò significa che il ragionamento umano, ad esempio, non corrisponde mai puntualmente con quello codificato dalla logica, deduttivo e con una base di conoscenza perfetta e completa; ma, al contrario, è sempre non monotono, suscettibile di revisione dei suoi valori di verità in proporzione al cambio di base di conoscenza dei dati (sui quali viene operato il ragionamento stesso). Nel primo caso, infatti, abbiamo «modelli molto idealizzati delle prestazioni inferenziali»[21]; invece, nel secondo caso, ragionamenti che operano «in condizioni realistiche»[22], sottoposti a «vincoli molto forti (devono agire velocemente, devono prendere decisioni anche se non dispongono di tutte le informazioni rilevanti, e così via)»[23]. A partire da questi ultimi assunti, circa le severe limitazioni cui possono andare incontro i ragionamenti umani, la logica moderna ha elaborato altri modelli di ragionamenti i quali prendono in considerazione la non monotonicità, le condizioni entro le quali il valore di verità delle conseguenze è rivedibile in funzione della modifica delle informazioni disponibili (al contrario di quanto avviene nei ragionamenti codificati dalla logica classica i quali prendono le mosse dalla monotonicità, ossia dal conservare, potenzialmente per sempre, il valore di verità delle conseguenze, non accettandone alcuna modifica posteriore). Questa direzione è stata assunta principalmente nell’ambito dell’intelligenza artificiale poiché «in questo settore è particolarmente importante disporre di modelli realistici delle capacità di ragionamento di agenti che hanno un accesso limitato alle informazioni»[24]. Tralasciamo questo settore particolare della ricerca logica, e torniamo al nostro argomento: può, quindi, la chiacchiera veicolare conoscenze parziali o mancate verità? Sembrerebbe proprio di sì, dato che la stessa soffre, in certo modo, delle medesime limitazioni sofferte dai suoi protagonisti, quei locutori che entrano in relazione per il tramite delle parole e dei relativi scambi enunciativi. Questo, però, potrebbe indurre a credere che sussistendo questo ulteriore limite, la chiacchiera si presti più alle funzioni del mentitore e del serpente, falsificare e ingannare, più che alla funzione più neutra del pappagallo, ripetere. Tuttavia, non crediamo che le cose stiano così. Preferiamo pensare che la chiacchiera condivida con la comunicazione umana, più in generale, la medesima condizione, di limitazione, di scarsità di informazioni, d’incompletezza, e così via. Anzi, forse, è la stessa limitazione di ciascuno: vivere ed operare all’interno di un limite, di un perimetro. Nelle parole di Natoli:

Ogni ente si pone nel limite, è qualcosa dentro al suo perimetro; è nella relazione-opposizione alla totalità dell’altro. Il limite dunque determina la cosa, e il soggetto si determina come limite[25]

Questo, di per sé, oseremmo aggiungere, allontana, dalla presente tipologia di discorso umano, la proprietà della falsità, la quale rende poi possibile ingannare il prossimo. La chiacchiera, dunque, non è mai di per sé una comunicazione falsa di una data conoscenza della realtà, può esserlo se è l’agente che manda ad effetto tale intenzione. Ma potrebbe pure apparire falsa senza esserlo del tutto: per scarsità di informazioni e per esaurimento del tempo disponibile, gli agenti umani potrebbero frettolosamente considerarla falsa quando, invece, essa potrebbe essere falsa solo in parte oppure mancare di essere (del tutto) vera. Verrebbe da dire, che dipende da come si vede il bicchiere (della verità), mezzo pieno o mezzo vuoto. E qui verrebbe in mente ancora la tematica, in sé molto interessante, della vaghezza delle conoscenze e delle inferenze su queste ultime. Ma ciò conduce lontano, molto oltre le finalità del presente scritto. Tornando al presente specifico, possiamo aggiungere ancora quanto segue.

5.     Facendo finta di concludere …

Entrando in relazione comunicativa solo alcuni locutori, è inevitabile che magari si parli di assenti oppure ancora che si sortisca un effetto di realtà che possa valere solo per quanti davvero vi prendano parte. Si potrebbe obiettare che, in fin dei conti, c’è più essere fuori dal discorso contingente di quanto possano anche solo immaginarselo i filosofi. Questo è sicuramente vero, ma appare debole come critica. Infatti, fa riferimento ad un contesto diverso dal presente: non si sta sostenendo che la chiacchiera sia un utile strumento di conoscenza della realtà, ma solo che uno degli strumenti sociali di costruzione (dell’esperienza) di realtà. E per di più, non vi si ravvisa alcuna differenza di rilievo rispetto al passato: ieri si chiacchierava al mercato o sulla pubblica piazza, oggi sul luogo di lavoro o sui social network. A cambiare, al massimo, è l’intensità dello scambio di informazioni, meno esteso e potente nei primi casi, più esteso e potente nell’ultimo caso. D’altra parte, non si avverte proprio il bisogno di scomodare in merito Parmenide, basta Severino quando sostiene che

Il disvelamento originario ed assoluto dell’essere – la verità dell’essere, appunto – accade non altrove che nel filosofare […] Alla filosofia, intesa come il solo pensiero dell’essere […] spetta inoltre di stabilire in che rapporto stiano con l’essere tutte le altre attività dell’uomo, e le trova tutte eccentriche rispetto alla verità dell’essere, le trova tutte decadute rispetto a sé: l’uomo che le vive non vive nella verità, vive nella doxa (nella non-verità)[26]

Ha ragione Severino a lamentare questa condizione umana? Forse sì, e forse no. Questa appare esattamente una mezza verità: né tutto vero né tutto falso. Per rispondere ci valiamo di un autore, diciamo così, più “potabile”:

la posizione di Severino è un po’ fuori luogo, visto che per Parmenide (almeno nell’inerpretazione standard platonico-aristotelica) non esiste nessuno degli oggetti della nostra esperienza quotidiana, mentre per Severino esiste tutto – anzi, tutto e sempre, visto che ogni cosa, nella concezione severiniana, è eterna[27]

Lasciamo stare i parmenidismi, e torniamo lesti alla chiacchiera.
Sentiamo, giunti a questo punto, di poter, quando non di dover, ricapitolare un po’ il discorso seguito sinora. Partendo dalla necessità di guardare un po’ oltre i pregiudizi della gente, la benedetta o vituperata, a seconda dei punti di vista relativi, doxa, opinione dei comuni mortali, per valutare se la chiacchiera necessiti di un trattamento filosofico più equo, più consono alla sua vera natura. Essa ci appare, infatti, come un insieme di parole condivise in un tempo limitato da un numero limitato di locutori. Da questo punto di vista, essa è, a tutti gli effetti, un tipo di discorso che singoli attori realizzano, entrando in relazione comunicativa. Eppure, sembra di poter individuare, al suo interno, almeno tre differenti tipi di conoscenza comunicati: (a) la verità; (b) la falsità; e, (c) l’opinione (o, opinabile). Tre rappresentazioni possibili di come stiano le cose in realtà.
Dunque, la chiacchiera è una forma più dimessa di comunicazione di conoscenza intorno al reale. Niente di più nobile, niente di più rischioso, si potrebbe anche aggiungere. Infatti, questi tipi di conoscenza possono venir comunicati da tre tipi possibili di locutori: (x) il pappagallo; (xx) il mentitore; e, (xxx) il serpente. Questo, ovviamente, in linea teorica. Tutto dipende, in pratica, dalla specifica funzione comunicativa che i singoli attori intendo realizzare: (z) ripetere una data conoscenza della realtà; (zz) mentire (su) una data conoscenza della realtà; o, (zzz) ingannare (su) una data conoscenza della realtà. A seconda della specifica funzione mandata ad effetto, per il tramite degli scambi comunicativi, si sortiscono differenti effetti di realtà: (i) ripetizione (mera rappresentazione); (ii) menzogna (falsa rappresentazione); e, (iii) inganno (rappresentazione manipolata per convincere).
Questo il risultato della presente indagine, questi i relativi limiti.
In primo luogo, l’esame appare non completo. Questo è certamente vero, ma non è facile operare una primaria dissodazione di un campo mai arato in precedenza perché snobbato ed attendersi copiosi frutti. Quelli arriveranno, ma alla seconda, terza, quarta dissodazione.
In secondo luogo, i tre tipi ideali di locutori individuati (x) – (xxx) appaiono più il frutto di una semplificazione, che la resa effettiva di tutti i tipi possibili di locutori nella chiacchiera. Questo è vero, ma non toglie nulla all’importanza di questi stessi attori. Forse, non sono tutti, ma certamente i principali.
In terzo luogo, la presente trattazione non prende affatto in considerazione gli effetti involontari della chiacchiera, sui partecipanti stessi e su chi non vi prende affatto parte. Verissimo, ma non si può chiedere anche questo ad un lavoro propositivo. Noi ci siamo sporcati le mani, potrebbe anche toccare a qualcun altro adesso.
Certamente, vi sono altri limiti, ma lasciamo che siano i lettori ad individuarli, ampliando il presente lavoro ed indagando altri ambiti rimasti nell’ombra.
Adesso sì che è possibile concludere il presente discorso.
Seguendo l’interpretazione dinamica degli scambi comunicativi e della costruzione sociale della realtà, non è la qualità dello scambio in sé ad importare, ma «come si gioca» nello scambio. Osserva, infatti, Sclavi:

Osservare il processo di costruzione sociale della realtà corrisponde a guardare come la gente si comunica quali comportamenti sono “normali” e quali no; quali significati si possono attribuire e quali no; ma questo viene in evidenza specialmente nelle situazioni in cui c’è dissenso, in cui si rischia o si attua un cambiamento di cornice. Quindi non dobbiamo guardare e descrivere come le cose funzionano “normalmente”, ma come viene gestita la possibilità di un cambiamento[28]

In effetti, basterebbe, forse,

renderci conto che non esistono degli interlocutori come entità separate e autonome dalle relazioni reciproche[29]

Il fatto stesso che ci muoviamo e viviamo “dentro” il linguaggio fa sì che quest’ultimo sia la più grande cornice all’interno della quale gli attori comunicano tra loro, dando luogo anche alla chiacchiera. E per suo tramite, per di più, gli interlocutori stessi si definiscono reciprocamente nello scambio comunicativo.
Per concludere, si potrebbe allora dire che la chiacchiera perimetra il limite stesso della relazione tra locutori e che è uno dei perimetri che i locutori si danno.

Bibliografia

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T. Todorov, Teorie del simbolo, Garzanti, Milano, 2008.
A. Tonelli, Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso, Feltrinelli, Milano, 2010.


[1] Cfr. J. R. Searle, Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 25.
[2] Cfr. E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medioevale, Rizzoli, Milano, 20064, p. 21: «La filosofia nasce grande».
[3] A Fabio Milazzo viene dedicata la presente ricerca pur nella consapevolezza che, come sempre, non sarà d’accordo.
[4] Cfr. T. Todorov, Teorie del simbolo, Garzanti, Milano, 2008, p. 29.
[5] Cfr. G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 20073, p. 25.
[6] Il riferimento è obbligato e va a Parmenide. Cfr. A. Tonelli, Le parole dei Sapienti. Seonfane, Parmenide, Zenone, Melisso, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 91 e sgg.
[7] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2000, p. 211.
[8] Ivi, p. 212.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p. 213.
[11] Ibidem.
[12] Ivi, pp. 213 – 214.
[13] Cfr. H. G. Frankfurt, Stronzate. Un saggio filosofico, Rizzoli, Milano, 20053, p. 11.
[14] Cfr. U. Marchetta, Connessioni. Studi di psicologia applicata, Grifo, 1992, p. 7.
[15] Cfr. S. V. Finzi, Storia della psicoanalisi. Autori, opere, teorie 1895 – 1990, Mondadori, Milano, 19999, p. 350.
[16] Cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, p. 3: «Pántes ántropoi toû eidénai orégonta physei» (980a).
[17] Cfr. D. Antiseri, La conoscenza scientifica, in G. Reale – D- Antiseri, Quale ragione?, Raffaello Cortina, Milano, 2001, p. 66.
[18] Cfr. T. Todorov, op. cit., p. 75.
[19] Siamo debitori di questa idea a Ivano Tonelli.
[20] Cfr. P. Odifreddi, Le menzogne di Ulisse, Tea, Milano, 2006, p. 38.
[21] Cfr. M. Frixione, Come ragioniamo, Laterza, Roma – Bari, 2007, p. 101.
[22] Ibidem.
[23] Supra.
[24] Ivi, p. 107.
[25] Cfr. S. Natoli, Soggetto e fondamento. Il sapere dell’origine e la scientificità della filosofia, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 110.
[26] Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano, 20052, p. 41.
[27] Cfr. F. Berto, L’esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma – Bari, 2010, p. 230.
[28] Cfr. M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Bruno Mondadori, Milano, 2003, p. 77.
[29] Ivi, p. 129.
Alessandro Pizzo

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2 commenti:

  1. non ho capito se l'idea di pappagallo, bugiardo e serpente è un contributo originale dell'autore o no?
    :)

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