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lunedì 14 maggio 2012

In viaggio per Itaca ... verso la polis!





Il volume di Eva Canterella, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, l’ho letto tutto d’un fiato tanto è interessante.
Eppure, in questa sede non interessa offrire un resoconto puntuale dello stesso oppure commentare il percorso argomentativo seguito dall’autrice. E, a dire il vero, non l’ho mai fatto in questo (non)luogo virtuale.
Allora, l’intento è, piuttosto, quello di ricostruire, per quanto possibile, il contesto storico del passaggio dalla Grecia preistorica a quella storica per il tramite della versione “fantastica” offerta dai poemi omerici, l’Odissea nel caso presente.


Attraverso la narrazione di Itaca, ci si propone di comprenderne l’«organizzazione sociale, la mentalità dei suoi abitanti, le loro credenze religiose, il loro mondo» (p. 19). Il che, ovviamente, non significa considerare il poema omerico attendibile da un punto di vista storico, ma, e qui sta l’estremo fascino dell’intero progetto, cogliere al di là del mito, oltre la fantasia, al di là delle menzogne letterarie, le movenze storiche di una società proprio all’alba della fase propriamente storica della terra greca. Infatti, il punto di partenza dell’autrice è ritenere che «la società di Itaca sia realmente esistita» (p. 19).


Bisogna, allora, prestare fede a quanto narra Omero? Sì e no, nella misura in cui siamo capaci di discernere la concretezza storica, anche tramite il confronto con altre fonti, dalle invenzioni della poesia greca.


Cantarella  ritiene che «credere nella storicità dell’epos omerico significa credere che l’Odissea, descrivendo la vita di Itaca e dei personaggi che la popolano, descriva i lineamenti dell’organizzazione sociale che i greci si diedero in un determinato momento della loro storia» (p. 19), credere che «la poesia epica descriva […] la cultura nel senso più ampio del termine: le credenze magiche e religiose, le regole etiche e sociali, le mentalità, i valori, la psicologia, il modo in cui venivano vissute le emozioni» (pp. 19 – 20), pensare che «Omero trasmetta nella sua globalità la memoria del patrimonio culturale di un popolo» (p. 20).


Non si tratta, allora, di considerare l’Odissea un documento storico, ma di estrapolarne quelle informazioni antropologiche che, essendo storicamente situate, nonostante gli inevitabili ibridamenti posteriori, consentono di vedere le movenze di una società storicamente concretizzatasi. Certamente non sarà esistito un re di Itaca di nome Ulisse, né tantomeno un delfino di nome Telemaco o una regina di nome Penelope. Ma, invece, sarà esistita una società storicamente reale facente da sfondo alla finzione omerica.


Dopo aver dedicato molte pagine al valore filologico della narrazione omerica, e alle relative dispute tra studiosi in merito alla sua, o meno, attendibilità, anche a finalità di ricostruzione storica, l’autrice entra nel merito di quella parte che più interessa alla presente ricognizione.
Cantarella individua nella civiltà micenea del XIV secolo a. C. lo sfondo storico poeticamente narrato da Omero. Sconfessando la teoria “standard”, secondo la quale la storia greca comincerebbe intorno all’anno Mille con la discesa dei Dori nel bacino egeo, le interpretazioni di Evans sulla lingua della civiltà pre – dorica, ossia quella micenea, o «achea» (p. 37), la famosa lineare B, consentono di datare la storia greca prima delle date convenzionali, cogliendo prima le informazioni salienti sulla nascita della civiltà greca. Come sostiene l’autrice «L’effetto della decifrazione della lineare B sugli studi omerici fu molto importante. La scoperta che la civiltà micenea era greca imponeva che a Omero si guardasse in una prospettiva nuova: se nel suo racconto c’era qualcosa di vero, se il mondo da lui descritto era reale, questo mondo doveva essere quello nel quale erano ambientati gli eventi narrati: quello miceneo, dunque» (pp. 42 – 3).

Se si considera Omero soltanto il compilatore di racconti tramandati oralmente, non è lecito supporre che l’epos narrato sia relativo ad una società precedente? Ad una cultura anteriore? L’idea, allora, è di considerare la poesia omerica la narrazione dell’epica micenea. L’Odissea, da questo punto di vista, sarebbe la trasmissione, per messa per iscritto di una cultura orale, una raccolta di «poesia epica micenea» (p. 44). Certo ciò produce la questione del ruolo di Omero nella trasmissione stessa di una poesia non più coeva alla narrazione scritta, ma nondimeno diventa ora possibile, tenendo conto di necessarie cautele metodologiche, considerare la narrazione omerica come la narrazione storica della società greca anteriore all’invasione dorica.
 Pertanto, «le istituzioni pubbliche e i rapporti sociali itacesi sono quelli che regolano i rapporti tra i membri di una comunità vissuta tra il X e l’VIII secolo a. C.» (p. 51). Seguire le vicende, sociali ed istituzionali, narrate da Omero, significa «assistere alla nascita di una polis» (p. 51).

Cantarella individua alcuni elementi alla base della società itacese: la regalità; l’importanza della forza; il ruolo del consenso. Nelle vicende di Telemaco, di Penelepe, degli attriti con i Proci, con la loro hybris, scorgiamo i barlumi dell’articolazione del potere a Itaca. Premesso che il suo re, Odisseo, è assente, e vaga nel Mediterraneo dopo la fine della guerra di Troia, chi esercita il potere? Non Penelope, perché donna, non Telemaco, che appare impotente. Se v’è una polis, allora dovrebbe esserci anche un basileus, ma quest’ultimo manca nella descrizione itacese offertaci da Omero. Così come manca il wanax, ossia il potere assoluto delle società cretese e minoica. Un esempio per tutti è Minosse, il sovrano che controlla tutto e tutti, che esercita un potere davvero assoluto, giudice inappellabile nell’esercizio della sua volontà. Ci troviamo, dunque, in un periodo storico certamente posteriore ma comunque precedente alla comparsa della polis, imminente alla sua alba, ma ancora avvolto nelle nebbie della preistoria ellenica. Peraltro, altri elementi fanno pensare alla presenza di una gestione a più mani del potere. Telemaco chiede aiuto all’assemblea degli anziani i quali, però, non offrono al giovane molto sostegno. Qual è il reale potere di quest’assemblea? Come asserisce l’autrice «non è un organo al servizio del re» (p. 89), ha un margine di autonomia rispetto al re, può essere consultata, convocata, ma ha margini di potere esecutivo davvero ridotti. V’è poi un altro organo di potere: il consiglio ristretto. In merito, non disponiamo di molti elementi a nostra disposizione, anche se tutto lascia supporre che non fosse una prerogativa regale. In genere, il consiglio, di società arcaiche, viene composto da anziani, da gherontes. Ma avverte l’autrice come si debba prescindere «da ogni riferimento all’età» (p. 92). Chi vi siede, occupa quel ruolo non per anzianità anagrafica, ma perché svolge le funzioni di “consigliere” del re. Il termine gheron, dunque, deve essere connesso con quello di basileus, il consiglio fornisce pareri, non sappiamo se solo consultivi o se anche vincolanti, al re. Ma ignoriamo chi lo convochi, chi ne abbia facoltà. D’altra parte, la medesima difficoltà che riscontriamo nel ricostruire il diverso ruolo giocato dai vari attori nella misura in cui si occupino del “privato” o del “pubblico”, la ritroviamo ogniqualvolta guardiamo alla profonda ambivalenza degli eroi omerici i quali si destreggiano tra “casa” e “città”, con tutto quell’insieme complesso di interrelazioni dovuto allo svolgere ruoli diversi in più tempi (esempio: marito e re). Tuttavia, il quadro generale che emerge è che per i greci la distinzione tra “pubblico” e “privato” fosse ben nota e riconosciuta. Peraltro, il pubblico, la città, appare «qualcosa di più e di diverso della somma dei gruppi familiari» (p. 97).

Ai presenti fini, pertanto, assume importanza la descrizione dello Scudo di Achille che Omero narra nell’Iliade.
Tra le altre cose, sulla sua superficie sono descritte due occasioni contrapposte:  una cerimonia nuziale e una scena processuale. Questo suggerisce di considerare le città greche non come semplici «aggregati urbani» (p. 99), ma come «comunità politiche» (p. 99), rette, pertanto, da un insieme condiviso e riconosciuto di regole. Infatti, queste due scene, un matrimonio e un processo, sembrano delineare la presenza di istituzioni precise che quelle comunità si erano date. Nel caso del processo, poi, viene anche individuato un organo ulteriore di controllo del rispetto formale delle regole riconosciute.

Sulla base di queste indicazioni, per forza di cose frammentarie, sembra di poter desumere come le poleis raffigurate icasticamente sullo scudo del pelide, siano le poleis greche, realtà storiche ben al di là della finzione retorica della poesia epica, organizzazioni «in cui esistono persone istituzionalmente abilitate ad esercitare la giurisdizione» (p. 101), le quali rappresentano anche «la collettività nei rapporti internazionali» (p. 101). Dunque, allora, anche le relazioni internazionali sembrano soggiacere ad un complesso di regole «i cui soggetti erano le comunità cittadine» (p. 101). Basti a titolo d’esempio il rituale dell’«ospitalità», così caro agli eroi greci nelle loro peregrinazioni, che comprendeva anche il consueto «scambio di doni». Peraltro, agli stranieri si chiede in primo luogo la città, ossia lo Stato, di provenienza, e dopo la genealogia parentale. Ciò induce anche a pensare come ormai «l’appartenenza cittadina […] prevale su quella familiare» (p. 101). Storicamente questo è sensato in quanto descrive l’alba della civiltà greca classica, fondata ed organizzata sui rapporti tra cittadini, ossia abitanti il medesimo consesso, e viventi secondo le stesse regole.
Ecco come la poesia epica di Omero possa servire in funzione storica, descrivendo proprio il momento di passaggio dalle comunità pre – politiche, del wanax despota assoluto di un territorio, il cui centro di potere è il Palazzo, alle comunità politiche, la cui vita si svolge all’interno della polis, in conformità a regole ed istituzioni consolidate e rispettate.

Il seguito dell’opera è dedicato all’esplorazione di alcuni dei molti significati assunti dal personaggio Ulisse, talvolta espressione della metis, della sapienza manuale, variante della proverbiale “furbizia” ulissea, che sconfigge non solo la forza, come nel caso del ciclope Polifemo, ma anche il ben più noto, e nobile, logos. Ulisse è talvolta eroe talvolta «eroe vendicatore» (p. 167).

Se quella Itacese è una comunità che, sotto molti aspetti, benché non tutti, ben si attaglia al modello della polis, di età classica, perché possiede una netta separazione tra “giustizia” e “vendetta”, tra “pubblico” e “privato”, tra “potere” e “sapienza”, e perché si regge su un complesso riconosciuto di regole ed istituzioni, con alcuni organi intermedi tra i sudditi e il basileus, che articolano ulteriormente il potere, possiamo dire anche che «esiste un diritto» (p. 190) a Itaca? Nel mondo di Omero? Nei poemi omerici «esiste un sistema di amministrazione della giustizia» (p. 194), di giustizia cittadina, non privata, come quella di Ulisse nei suoi palazzi, sui suoi sottoposti. Anzi, il compito di amministrare la giustizia «appare riservato a personaggi diversi» (p. 194), in genere il re, il basileus, ma non solo. Nell’Odissea talvolta sembra essere Telemaco, almeno nel periodo di assenza del sovrano. Quali che fossero, però, «le competenze giurisdizionali dei sovrani» (p. 196) è difficile dire poiché le fonti al riguardo tacciono. Tuttavia, esse appaiono non generalizzate e esclusive. Tant’è che si registra anche la presenza di un collegio giudicante sul quale si appoggia colui che amministra la giustizia, un collegio di gherontes, non per forza “anziani”, come abbiamo visto. Nella scena descritta sullo scudo di Achille si vede come operi un histor (si colga l’analogia con la posteriore storia: colui che istruisce il caso) il quale non «decide la controversia» (p. 197), la presenta, esponendo i fatti e le rispettive ragioni dei litiganti. Chi decide è un «organo collegiale» (p. 197), composto dagli anziani. A prima vista sembra strano che decidano sulla pubblica piazza ma la descrizione della seduta lascia intravedere la scelta di un luogo adibito alla risoluzione delle controversie. Il caso specifico, poi, del giusto prezzo da versare a risarcimento di un torto offeso, offre spunti interessanti per scorgere l’affermazione di un diritto pubblico oggettivo dalle ceneri dei rituali privati della vendetta. Ecco, allora, che assume senso il ruolo degli anziani, dei gherontes: essi sono «la risposta a un’esigenza nuova di giustizia, della quale, nell’epoca che ved eil progressivo emergere dei valori collaborativi, il potere collettivo si fa carico, per la prima volta nel mondo greco postmiceneo» (p. 201), si affiancano, cioè, all’etica arcaica, basata sul mero esercizio della forza personale, «valori ispirati a un’etica coopera iva, e la corrispondente necessità, sempre più sentita, di garantire la pace sociale» (p. 201).
Certo nella polis nascente esistono ancora forme arcaiche di giustizia privata, come la vendetta e la disponibilità dei beni personali, ma «viene affiancata da una sanzione nuova, diversa, fisica, così come fisica era stata per secoli la reazione vendicativa. Senonché, ora, l’uso della forza fisica è una sanzione “pubblica”» (p. 202). Dunque, la «Grecia postmicenea entra nel mondo del diritto» (p. 202).


(immagine tratta da: http://squilibri2.files.wordpress.com/2010/06/scudo21.gif)

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