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venerdì 9 maggio 2014

Il labirinto della trattativa … parte giuridica



Se storicamente è impresa davvero difficile poter inquadrare gli eventi e i soggetti che si resero protagonisti ed effettori della trama complottista, ancora più ardua risulta l’impresa se assunta a partire dallo sguardo del giurista. Difatti, non esiste alcun reato che possa inquadrare in maniera netta eventuali responsabilità ambiguamente chiamate in causa dalla nozione stessa di “trattativa”.


Giovanni Fiandaca è netto nell’esprimere questa sua opinione di carattere generale, ma anche nel criticare l’atteggiamento complessivo della Procura palermitana nell’affidamento completo all’art. 338 c.p., capo d’accusa del medesimo procedimento.


Il giurista risulta molto interessato all’argomento in questione, ma individua subito un preciso limite all’interpretazione dei giuristi a tal proposito: «per punire un reato non basta disapprovarlo, ma occorre individuare una legge che lo configuri espressamente come reato» (p. 71).  Detto altrimenti, precisato che i giudici cercano di fare onestamente il loro lavoro, è comunque impresa farraginosa cercare di inquadrare gli eventi in questione all’interno di ben precisate ipotesi di reato, anche in considerazione della distanza temporale naturalmente intercorsa nel frattempo.  V’è poi insito, e concreto, il rischio che il magistrato travalichi in certo qual modo il suo stesso ruolo, andando a «dare voce all’indignazione collettiva e al diffuso bisogno di risarcimento morale provocati dagli eventi sfragistici del biennio ’92 – ‘93» (p. 71). Così, rendendosi interpreti di un diffuso sentimento popolare, non consolato per altra via, i magistrati che perseguono i turpi protagonisti della (presunta) trattativa tra mafia e Stato, essi finiscono con il fondere il procedimento inquisitivo, per sua natura intransigente, e l’umore popolare, per sua natura abbastanza schematico e sedotto dalla retorica massimalista, passando da funzionari, di quello stesso Stato che chiamano a processo, a tribuni del popolo.


Secondo Fiandaca, essendo tutti i magistrati della procura palermitana interessati al procedimento in questione di comune affiliazione antimafia, essi, cercando visibilità ed interpretando la propria funzione anche in chiave pedagogica, andando nelle scuole, nelle università, nelle piazze, ad incontrare la gente e a insegnare loro cosa sia il diritto, anche al fine di non rimanere “isolati” all’interno dei corpi statuali, anche come effetto dell’insegnamento di Falcone, corrono davvero il rischio di tramutarsi in meri esecutori della volontà popolare, sovrapponendo alla conoscenza giuridica dei fatti in questione una preventiva, e presuntiva, valutazione morale, popolare quanto preconcetta.


Che il rischio sia forte lo dimostra l’atteggiamento di varie componenti dell’anima popolare dell’antimafia la quale mette in campo «una accesa e fideistica tifoseria a sostegno dei magistrati dell’accusa» (p. 72), dimenticando che la normale cultura giuridica contempla anche l’istituto della difesa, per non parlare dell’intero processo penale, e che una giustizia delle emozioni è cosa ben distante dalla stessa giustizia che, a parole, viene invocata.


La magistratura non è solo inquirente, è anche giudicante, e per giudicare qualcuno colpevole di qualcosa lo si deve dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio. Cosa che, invece, la pubblica accusa nel caso delle trame inerenti alla trattativa non fa. Per Fiandaca è persino «fuorviante» (p. 73)denominare l’attuale procedimento penale in corso come «processo sulla trattativa».  Piuttosto, qualificare in termini giuridici l’insieme delle condotte messe in atto durante la trattativa in questione richiede uno sforzo cognitivo e metodologico superiore agli umori della piazza. Se la parola ‘trattativa’ risulta già di suo estremamente ambigua e poco chiara, lo è ancora di più in dottrina ove trattare rimanda ad una serie di operazioni preliminari al raggiungimento di un vero e proprio accordo. È, infatti, significativo che la vulgata mediatica parli di processo su una trattativa, equiparando indegno a reo, senza, però, specificare né i termini esatti dell’accorso né specificare se un accordo seguì davvero. In questo senso, l’azione dei magistrati configura piuttosto l’espressione di una congettura investigativa, la quale sarebbe precursore di eventuali e successive ipotesi di reato, che non un rigoroso onere probatorio a carico di terzi. Come a dire che non esiste nel nostro ordinamento il reato di ‘trattativa’. Anche perché risulta davvero difficile inquadrare le responsabilità personali dei singoli. Mentre risulta più facile, e schematico, addossare allo Stato la colpa di aver trattato, più difficile è stabilire chi nello Stato s’è reso responsabile personalmente della suddetta trattativa.


Ammesso e non concesso che qualche accenno di trattativa in quegli anni terribili vi fu, il livello di attività statuale messo in azione non sarebbe stato, giunge a chiedersi Fiandaca, lecito se finalizzato a un «obiettivo anti – stragistico» (p. 82)? Peraltro, le strane vicissitudini processuali del generale Mori mostrano una non uniformità di opinioni in seno alla procura di Palermo la quale, da ultimo, sembra orientata a considerare più verosimile l’ipotesi che obiettivo dei contatti informali con Ciancimino jr «non fosse di intavolare un vero e proprio negoziato con Cosa Nostra» (p. 83), ma «far apparire l’esistenza di un negoziato al fine di carpire informazioni utili sulle dinamiche interne a Cosa Nostra» (p. 83), e questo anche «in vista della cattura dei boss ancora latitanti» (p. 83). Sembrerebbe, dunque, che l’operato degli organi inquirenti sia stato piuttosto quello di fare il doppio gioco che di cedere davvero ai desiderata di Cosa Nostra. Ma questo comportamento non integra in sé alcuna ipotesi di reato né tantomeno prefigura un illecito a carico di singoli. Allora, com’è possibile che venga istruito un processo penale sulla trattativa?



Per accertare l’esistenza di una reale accordo tra mafia e Stato, sarebbe bene che i magistrati dicessero anche quale sia stato, in tal caso, «l’insieme dei vantaggi ricevuti da Cosa Nostra» (p. 95). Infatti, grande assente in tutte le ricostruzioni, più o meno faziose, della tematica in questione, è l’aspetto relativo ai risultati tangibili della trattativa, ovvero l’oggetto ignobile del negoziato, il frutto proibito della commistione di mafia e Stato. La retorica pubblica, al riguardo, sostiene che i mafiosi ottennero un alleggerimento del trattamento penitenziale, circostanza vera solo in alcuni casi, ma del tutto falsa se si pone mente al generale inasprimento della legislazione criminale, mentre lo Stato ottenne una sospensione della strategia sfragistica. Tuttavia, Fiandaca ritiene come non sembrano «esservi ragioni oggettivamente forti per supporre che il ricorso a una strategia di tipo stragista fosse una condizione storicamente necessaria del passaggio dal vecchio sistema di potere incentrato sulla Dc al nuovo regime impersonato da Berlusconi» (p. 88). Solo nelle chiacchiere “da bar” o da quattro soldi si può cogliere tale nesso mentre in sedi istituzionali tale ragionamento non regge, nel senso che non si sostiene su solide ragioni.



L’intera ricostruzione inquirente «desta riserve» (p. 97). Non basta una generica, e preconcetta, cornice storica per inquadrare i comportamenti e individuare responsabilità così come ipotesi di reato a carico di terzi. Peraltro, data la situazione di estremo pericolo per l’incolumità dei cittadini, Fiandaca prospetta una situazione di extra legem in forza della quale, ammesso e non concesso, che quadri e settori dello Stato abbiamo cercato di dialogare con la mafia offrendo concessioni «in cambio della cessazione delle stragi» (p. 104), l’intera strategia come tutta l’iniziativa sarebbe legittima perché «giustificata […] dalla presenza di una situazione necessitante che impone agli organi pubblici di proteggere la vita dei cittadini» (p. 104). In questo stato di cose, appare pertanto risibile la medesima ipotesi processuale, tanto più se si pone mente all’assenza nel nostro ordinamento giuridico del reato di trattativa.



Tuttavia, ne emerge abbastanza chiaramente una versione “forte” di legalità nel procedimento in corso ad opera dei magistrati palermitani e secondo la quale essa «non può che essere ritagliata sul modello di una lotta alla mafia che vede come unica istituzione competente quella giudiziaria» (p. 109). Pertanto, qualsiasi iniziativa da parte di altri organi, ancorché statali, deve essere stigmatizzata come «interferenza illecita o inopportuna» (p. 109).



Il procedimento si basa sullart. 388 c.p., minaccia ad un corpo politico. Ma Fiandaca ravvisa tutte le difficoltà di una simile fonte dal momento che taluni soggetti avrebbero un doppio ruolo, di persecutori di sé stessi, e come risulti davvero difficile distinguere le responsabilità di singoli ufficiali appartenenti ad organi diversi dello Stato. Piuttosto, ravvisa ancora, sarebbe stato più saggio procedere ex art. 289, attentato contro organi costituzionali e contro assemblee regionali. Non basta trattare perché si verifichi la fattispecie prevista all’art. 388, «bisognerebbe provare che politici e ufficiali dei carabinieri avessero l’ulteriore volontà di supportare Cose Nostra anche nella realizzazione dei singoli attacchi criminali volti a imporre la trattativa» (p. 123).



Secondo Fiandaca, peraltro, le recenti vicissitudini politico – magistrali, hanno avuto come effetto l’«attivarsi di uno specifico circuito politico-mediatico-giudiziario interessato a strumentalizzare tutta la vicenda in vista di contingenti obiettivi politici più generali» (p. 126). Così facendo, però, la ricerca «della verità fattuale rischia di incamminarsi per scorciatoie che assumono impropriamente il sapere storico-sociologico […] a fonte di verità inoppugnabili, così trascurandosi che la stessa storia e la stessa sociologia […] sono ben lungi dal fornire conoscenze sicure e univoche» (p. 130).



Se desideriamo davvero fare chiarezza e cercare la verità di fatti comunque verificatisi molti anni fa e sui quali si è realizzato un proliferare di vari processi, con una loro storia ed una loro evoluzione, Fiandaca suggerisce la via della Commissione parlamentare. Tuttavia, al di là delle non rosee precedenti esperienza di tale strumento, «difficilmente dai suoi lavori potrebbero emergere novità tali da sconvolgere il senso complessivo delle considerazioni sin qui svolte» (p. 135).

(per la parte storica, qui il link al post apposito)



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